Leone XIV: “Sparire per fare spazio a Cristo”, parole che sanno di eternità
di Redazione Sito · Pubblicato · Aggiornato
di Tielle – 10 Maggio 2025
«Sparire perché rimanga Cristo». Sono parole che scuotono l’anima, che restano impresse nella memoria, che rimangono custodite nel cuore. Come un tesoro prezioso. Parole che non mentono e non hanno timore della verità, fortemente cristocentriche, che denotano una Chiesa che sembra aver ritrovato il suo fulcro, Cristo. Sono risuonate – alte e forti – queste parole sotto le volte della Sistina durante la prima Messa che papa Leone XIV ha celebrato ieri mattina, sabato 9 maggio, con i cardinali che lo hanno eletto al soglio di Pietro e gli altri membri del Sacro Collegio.
Non solo, nell’intera omelia, la prima da Papa, di Robert Francis Prevost è risuonata una ferma e appassionata dichiarazione d’amore per la Chiesa di Cristo, definita con immagini altamente poetiche, come «città posta sul monte, arca di salvezza che naviga attraverso i flutti della storia, faro che illumina le notti del mondo». A renderla tale non è tanto «la magnificenza delle sue strutture o per la grandiosità delle sue costruzioni» che pure c’è e non va rinnegata o nascosta, ma «la santità dei suoi membri, di quel “popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa”».
Il Papa non ha avuto timore di denunciare la tiepidità della fede nel mondo di oggi, una fede sempre alla ricerca di compromessi appaganti, disposta a seguire Gesù finché è facile e comodo, fino a quando non comporta rischi e inconvenienti. Il Pontefice ha poi sottolineato con forza e senza paura i non pochi contesti «in cui la fede cristiana è ritenuta una cosa assurda, per persone deboli e poco intelligenti; contesti in cui ad essa si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere» dove è difficile testimoniare e annunciare il Vangelo e «dove chi crede è deriso, osteggiato, disprezzato, o al massimo sopportato e compatito». E sono tanti. Troppi.
Ma proprio questi, per Prevost, sono i «luoghi in cui urge la missione, perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre e non poco». Perché, se crolla la fede nel Cristo crocifisso, morto e risorto, tutto crolla con essa, come un castello di carte, tutto si affloscia come una pianta senz’acqua. Ha inquadrato con lucida sapienza i veri problemi e le sfide che la Chiesa di Cristo deve affrontare nel terzo millennio, che non sono l’ecologia, le migrazioni, la crisi climatica, la diseguaglianza economica, la fame nel mondo… temi tutti alti e degni, ma nulla in confronto alla drammatica crisi di fede che sta interessando la società odierna, almeno nel Vecchio mondo.
E ha anche individuato la ricetta: rimettere Dio al centro, lo dimostrano le sue parole citate in apertura. Riecheggia in esse quella che fu la principale preoccupazione di un altro grande pontefice, Bendetto XVI. Ma Prevost non è Ratzinger: è un Papa missionario destinato ad un nuovo annuncio del Vangelo per una società che è un campo vergine, perché ha quasi del tutto dimenticato cosa sia davvero la Buona Notizia. Vasto è quindi il campo a cui è chiamato il seminatore.
Leone XIV lo sa bene, ed è per questo che respinge con fermezza le blandizie di chi, anche con le più buone intenzioni, vorrebbe ridurre il cristianesimo ad una melassa indistinta di buoni sentimenti e il Cristo, il Signore del tempo e della storia, a una specie di guru new age o a un santone ricco di fascino. Tale convincimento lo ha espresso chiaramente in uno dei passi più densi dell’intera omelia. «Anche oggi – ha affermato – non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto».
In queste parole emerge chiaramente che per il Papa la fede cristiana non può ridursi a un vago cristianesimo culturale che disconosce le sue radici e neppure a una mera pratica religiosa che ignora magari persino le verità fondanti della fede che professa. Il Cristo non si conosce per osmosi, perchè Egli non è un’idea o un ideale astratto di vita. Egli è una Persona viva e vera, e l’incontro con Lui è un incontro personale che avviene nella vita di ogni uomo.
Ma tutta l’omelia è densa di spunti e suggerimenti, è da leggere e rileggere con calma, da custodire e da meditare, degnamente conclusa da un passaggio che parte dalla citazione di un grande Padre della Chiesa, Sant’Ignazio da Antiochia, con la sua lettera ai Romani. In questo passaggio si capisce bene che tipo di missione abbia in mente il Papa, una missione che non conosce protagonismi, perché al centro di tutti c’è la Chiesa, c’è Cristo.
Ha ricordato infatti il Papa: «Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: “Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo”. Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo – e così avvenne –, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato, spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo». Cosa si potrebbe dire di più? Cosa si potrebbe dire meglio?
