Un sacerdote fedele alla propria vocazione fino al martirio: Don Giuseppe Beotti
di Redazione Sito ·
Un sacerdote fedele alla propria vocazione fino al martirio: don Giuseppe Beotti
Dopo poco più di tre secoli dalla beatificazione dell'ultimo sacerdote di origine piacentina (papa Gregorio X, 1713), a cinque anni dall’ultima beatificazione a Piacenza (suor Leonella Sgorbati, 26 maggio 2018), a meno di un anno dalla canonizzazione del vescovo Giovanni Battista Scalabrini (9 ottobre 2022), la Chiesa piacentina-bobbiese vive la beatificazione del sacerdote don Giuseppe Beotti, ucciso dall’esercito nazista il 20 luglio 1944 a Sidolo di Bardi durante l’operazione del grande rastrellamento. Sabato 30 settembre alle ore 15.30, al termine del Convegno pastorale diocesano d’inizio anno, il cardinal Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, presiederà a Piacenza la messa con il rito di beatificazione di don Giuseppe Beotti, sacerdote diocesano e martire. Il 20 maggio scorso papa Francesco ne ha riconosciuto il martirio “in odium fidei”, in odio alla fede. E giunto così a conclusione il processo di beatificazione iniziato in diocesi il 9 febbraio 2002.
Ai tempi in cui visse Don Giuseppe Beotti esistevano ancora i curati, i giovani preti che affiancavano il parroco titolare della parrocchia nello svolgimento dell’attività pastorale. Oggi giocoforza di queste figure dobbiamo farne a meno. E sì perché è più che mai vero che mentre “la messa è molta, gli operai sono pochi”, sempre più pochi!
Giuseppe Beotti nacque a Campremoldo Sotto, frazione di Gragnano Trebbiense (Piacenza, Italia) il 26 agosto 1912, in una famiglia di agricoltori. Nel 1925 entrò in seminario a Piacenza e venne ordinato presbitero il 2 aprile 1938.
Don Beotti, subito dopo l’ordinazione, era stato inviato come curato appunto a Borgonovo, dove rimase per quindici mesi, dedicandosi, oltre che alle confessioni e alla liturgia, in modo particolare ai giovani. Sapeva stare con loro, vivere con essi il momento più entusiasmante e genuino della vita, trasmettere loro il messaggio evangelico e tradurlo nel quotidiano. E i giovani lo seguivano volentieri e gli volevano davvero bene, era un uomo che sapeva toccare il cuore, era credibile!
Non che questo inizio, ricco e molto intenso, sia continuato! Nel 1940, il suo Vescovo, Mons. Menzani, lo trasferì come parroco a Sidolo, un paese di montagna, nel comune di Bardi (provincia di Parma ma diocesi di Piacenza). Anche solo per arrivarci, quel 21 gennaio 1940, fu un’impresa: nessuna strada carrozzabile, la corriera che andava in quel metro e mezzo di neve, il viaggio fatto con un’auto privata, la canonica… vecchia e inabitabile.
Dirà poi il giovane sacerdote: “Più che venuto, fui portato a Sidolo”. Don Giuseppe però fu docile al suo Vescovo: “Sia fatta la volontà di Dio”. Lui, giovane e delicato anche di salute, andò dove la Provvidenza aveva voluto condurlo, non sia arrese alle difficoltà, ce la mise tutta per sistemare ciò che non andava, per amore di quel piccolo gregge, per cui – lo disse e ripeté tante volte – era disposto a sacrificare persino la vita. Nessuno avrebbe immaginato che ciò sarebbe accaduto davvero presto.
Si adoperò costantemente anche per le parrocchie vicine, dove si recava, a piedi, per le confessioni e le predicazioni; il suo tempo libero era dedicato all’adorazione e alla preghiera, oltre che a correre incontro agli svariati bisogni dei suoi parrocchiani.
Erano tempi di guerra: 1942, il governo fascista oltre che le perquisizioni di oro e di pentole di rame alle famiglie (per fabbricare munizioni e sostenere così lo sforzo bellico del Paese) aveva ordinato di requisire anche tutte le campane di bronzo delle chiese. I Sidolesi e don Giuseppe si rifiutarono, anche se poi due delle campane della chiesa furono requisite lo stesso. Per questo Don Beotti ebbe delle grane con le autorità fasciste, poi risolte, ma comprese che da lì in poi sarebbe stato nel mirino.
Dopo l’8 settembre 1943, col caos che si era creato a seguito dell’armistizio, alla canonica di Sidolo bussarono in molti. Don Giuseppe non rifiutò mai il suo aiuto a nessuno, ebrei, tedeschi, partigiani… Pur essendo cosciente del pericolo che correva, il desiderio di fare il bene era più forte, mentre avvertiva il presagio che presto sarebbe morto.
Fatale fu quel lenzuolo bianco esposto dal campanile della sua chiesa, che fu interpretato dai tedeschi come un avviso per i partigiani. Fu l’inizio della fine: presero don Giuseppe, don Francesco Delnevo e il giovane seminarista Subacchi, li allinearono al muro e mentre si scambiavano l’assoluzione e un ultimo abbraccio la raffica dei mitra li crivellò di colpi. Anche il loro sangue come quello di tanti altri si è trasformato in linfa vitale, a testimoniare pubblicamente l’amore per il Vangelo, la fedeltà alla propria vocazione fino al sacrificio estremo di sé.
Per questi motivi, ricordiamo Don Beotti, lo ringraziamo per l’esempio e la carità che ha tradotto in opere verso il prossimo e per essere rimasto al suo posto, pur potendo scappare o nascondersi in luoghi più sicuri e avere salva la vita. Alla Chiesa lasciamo esporre i motivi della sua beatificazione, ma ricordiamo le parole di Gesù nel Vangelo che ci chiamano ad essere testimoni autentici proprio come Don Giuseppe: «Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Matteo 16,25).
Livia
Bellissima testimonianza che incoraggia anche noi a fare altretranto in situazioni magari diverse